Via della Lungara
Trastevere
Roma
2023
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Lungotevere Gianicolense
Il lungotevere Gianicolense è il tratto di lungotevere che collega piazza della Rovere a ponte Mazzini, a Roma, nel rione Trastevere[
Il lungotevere prende nome dal colle Gianicolo, sito nel rione; è stato istituito il 20 luglio 1887.
Nella zona dove è attualmente posto il lungotevere, all'altezza di palazzo Salviati, si trovava il porto Leonino: fatto erigere da papa Leone XII nel 1827, serviva per l'approdo delle barche e lo scarico delle merci; fu distrutto nel 1863.
Insieme al porto fu costruita una fontana, spostata in piazza Pietro d'Illiria in occasione dei lavori per la costruzione dei muraglioni del lungotevere. Al suo posto furono realizzate due fontanelle, poste circa a metà delle rampe di scale che scendono verso il fiume, inattive dal 1950.
Tra la salita del Buon Pastore e piazza della Rovere, questo è uno dei tratti di lungotevere dove appare più evidente la misura della sopraelevazione rispetto alle strade storiche lungo il fiume (qui, via della Lungara); una situazione analoga si riscontra al Lungotevere Tor di Nona.
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Ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà
Origini e sedi
L'istituzione del Santa Maria della Pietà ha origini antiche risalenti al XVI secolo. Fu fondato nel 1548 per volontà e opera del sacerdote sivigliano Ferrante Ruiz e dei due laici Angelo Bruno e il figlio Diego, legati a Ignazio di Loyola.
La prima sede, nei pressi di Piazza Colonna a Roma, fu inizialmente preposta all'accoglienza dei numerosi pellegrini attesi per l'Anno Santo del 1550, mentre in seguito si specializzerà in aiuto ai poveri, vagabondi, ma soprattutto nell'accudimento dei folli.
Inizio del testo del primo regolamento adottato dalla allora struttura di ricovero e assistenza: "Ordinamento elaborato dal cardinale Francesco Barberino nel 1635 su ordine di papa Urbano VIII".
«Regole et ordini per il buon governo della Chiesa, et Ospitale della Santissima Pietà, dove si governano, et mantengono gli Huomini, e le donne pazze della Città di Roma in piazza Colonna, stabilite al primo d'ottobre 1635
D'ordine dell'Emnentiss.mo Sig. Card. Francesco Barberino protettore.
Avendo la Santità di Nostro Signore Papa Urbano VIII eletto l'Eminentissimo Sig. cardinale FRANCESCO Barberini suo nepote per protettore della Chiesa di Piazza Colonna et ospitale della Santissima Pietà dove si governano, e mantengono, gli huomini e le donne pazze della città di Roma: Et havendo Sua Eminenza inteso con particolare senso di disgusto, che per il buon governo di detto luogo non si sieno finora stabilite le regole e gli ordini necessari da osservarli, hà ordinato che si formino, e mettino in uso, acciò opera così pia, e santa venga da tuti amministrata con quella carità che si conviene.»
Segue un capitolato di XV voci che individua nel dettaglio e pienamente responsabilizza le figure preposte agli atti amministrativi, alla sorveglianza a alle mansioni per il corretto funzionamento della struttura ospedaliera tutto ciò in data 7 ottobre 1635.
Nel 1725 Papa Benedetto XIII accorpò l'ospizio all'arcispedale di Santo Spirito ed il trasferimento a via della Lungara, allora ben lontana dal centro della città: l'isolamento del pazzo dal contesto sociale cominciò a richiederne anche l'isolamento fisico dalla società civile.[3]. L'isolamento ed il numero sempre maggiore di ricoverati portarono ad un periodo di decadenza dell'ospedale. Nei secoli successivi seguirono numerosi dibattiti, provvedimenti per il risanamento, nuovi regolamenti e visite apostoliche che videro annettersi alla struttura principale anche Villa Barberini, per i degenti più facoltosi, e Villa Gabrielli sul Gianicolo.
Con l'Unità d'Italia, il Santa Maria della Pietà venne riconosciuto come Opera Pia, mentre dal 1907 la sua amministrazione fu affidata completamente alla Provincia.
Il complesso del 1909
Nel 1909 per iniziativa del senatore Alberto Cencelli sulla collina di Monte Mario (località Sant'Onofrio) cominciarono i lavori per il nuovo ospedale psichiatrico progettato da Edgardo Negri e Silvio Chiera e denominato Manicomio Provinciale di Santa Maria della Pietà che cominciò a funzionare il 28 luglio 1913 e fu inaugurato ufficialmente da Vittorio Emanuele III il 31 maggio 1914. Il complesso concepito con lo spirito del manicomio-villaggio si estendeva su circa centotrenta ettari e comprendeva quarantuno edifici ospedalieri, di cui ventiquattro erano padiglioni di degenza. Gli edifici, immersi in un grande parco di piante a fusto alto e collegati l'un l'altro da una rete stradale di circa sette chilometri complessivi costituivano così il più grande Ospedale Psichiatrico d'Europa con una capacità di più di mille posti letto.
Struttura e internamento
Il Santa Maria della Pietà si presentava diviso in due sezioni rigidamente separate: l'area maschile e quella femminile che rimarranno ben differenziate nella gestione fino agli anni '70. Era una piccola città dove i servizi interni erano garantiti dalla presenza di un impianto termico centralizzato, la cucina, la dispensa, lavanderia e in seguito anche una piccola sala operatoria. Vi erano inoltre la fagotteria (dove venivano depositati gli effetti personali dei ricoverati), la chiesa, l'alloggio delle suore, i laboratori dei fabbri e dei falegnami.
All'epoca la legge prevedeva il ricovero delle persone sulla base di un certificato attestante uno stato di pericolosità per sé o per gli altri o per atteggiamenti di pubblico scandalo e ben presto si giunse ad un sovraffollamento con oltre duemila ricoveri. Nei casi incerti si decideva la dimissione o l'internamento dopo un periodo di osservazione.
Ogni padiglione era una realtà a sé stante: la ripartizione dei malati non veniva fatta in base alle patologie psichiatriche dei malati stessi, ma esclusivamente in merito al comportamento che questi manifestavano. Il team di infermieri, la suora caporeparto e il medico di ogni padiglione si trovavano così a gestire un insieme disomogeneo di degenti altamente diversi per gravità della patologia, terapia ed età. Comuni erano invece l'inattività, l'abbandono e regressione dei pazienti che sviluppavano di conseguenza un carattere aggressivo.
Tra i diversi padiglioni si ricordano: il XVIII dei criminali con mura di cinta di quattro metri; il XIV degli agitati; il XXII dei cronici, il XII dei pericolosi per tentativi di fuga e di suicidio; il VIII e XC dei bambini; il XXX delle lavoratrici e padiglioni specifici per pazienti con TBC, come il XVI. Il padiglione più grande, il XXII, detto il Bisonte, ospitava più di trecentoventi pazienti tra epilettici, dementi senili e schizofrenici.
Vita da manicomio
La vita nel manicomio era principalmente scandita dai pasti e dalle rigide disposizioni del regolamento interno. Ad ogni cambio di turno gli infermieri dovevano fare la conta dei pazienti in loro consegna e riportare il tutto su di un registro detto vacchetta: era infatti sotto la loro personale responsabilità l'incolumità di ogni degente. A questo fine nei turni notturni gli elementi più problematici venivano spesso costretti a letto con fasce di contenzione o sedati con rimedi drastici. Questo contesto segregante e disumanizzante colpiva entrambe le parti come riporta Adriano, infermiere psichiatrico:
«Il lavoro degli infermieri è molto difficile e si mettono in moto meccanismi spontanei di autodifesa psicologica. Si instaura un adeguamento alle regole e, com'è naturale in queste situazioni, si viene inglobati dai meccanismi istituzionali senza rendersene conto, divenendo allo stesso tempo strumento e vittima della repressione manicomiale»
(Adriano Pallotta, Scene da un Manicomio
Nei momenti vuoti i degenti venivano posti nelle sorveglianze interne od esterne e lasciati a se stessi, in una nullafacenza delirante e controproduttiva. Solo occasionalmente venivano concesse delle passeggiate nel parco del manicomio. La normale routine veniva rotta solo in due occasioni: il primo maggio e il 15 settembre, ricorrenza di Santa Maria della Pietà in cui veniva organizzata una grande festa che tramutava il manicomio, anche se per poco, in un ambiente piacevole. Alcuni pazienti denominati malatini per le loro caratteristiche tranquille e servizievoli godevano di maggiori libertà: aiutavano gli infermieri nella gestione dei degenti più impegnativi o venivano loro affidati dei lavori retribuiti all'interno del manicomio stesso. Alcuni di loro infatti lavoravano in una piccola azienda agricola, creata nell'ottica dell'ergoterapia, rendendo quasi autosufficiente la struttura.
L'ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà era un'istituzione sanitaria dell'ex provincia di Roma che fino al 2000 fu destinata al trattamento delle malattie mentali.
Dalla sua fondazione nel XVI secolo fino al 1907, ebbe varie sedi; la più recente struttura presso cui era ubicato si trova a Monte Mario, area nel settore nord-occidentale di Roma, in cui nel 1907 furono edificati i padiglioni dell'istituto. I locali, di proprietà della Regione Lazio, consistono in un corpo centrale e circa quaranta padiglioni. Il primo è adibito a sito museale, mentre i padiglioni sono in uso all'Azienda sanitaria locale Roma 1, che ivi ospita propri ambulatori, e al XIV Municipio di Roma Capitale.
Facendo seguito alle riforme dell'ordinamento sanitario e, in particolare, del trattamento psichiatrico iniziato dalla legge Basaglia, la struttura perse la sua funzione di manicomio giudiziario e venne gradualmente ridimensionato fino alla chiusura definitiva avvenuta il 14 gennaio 2000.
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Via della Lungara
Via della Lungara è una strada di Roma che collega via di Porta Settimiana e piazza della Rovere, nel rione Trastevere
Nome
Inizialmente chiamata sub Janiculensis o sub jano, i pellegrini che giungevano a Roma per recarsi a San Pietro la conoscevano come via Sancta. Successivamente fu nota come via Julia, come l'omonima via dall'altra parte del Tevere, sebbene venne solamente sistemata da papa Giulio II (a iniziarla, infatti, fu Alessandro VI).
Infine, il nome fu cambiato in quello attuale per la sua lunghezza in rettifilo
Monumenti
Dal 1728 in via della Lungara sorgeva il manicomio di Santa Maria della Pietà, proseguimento dell'ospedale Santo Spirito. Ampliato nel 1867, fu demolito in occasione della realizzazione del lungotevere.
Architetture religiose
Chiesa di Santa Croce alla Lungara
Chiesa di San Giacomo alla Lungara
Chiesa di San Giuseppe alla Lungara
Architetture civili
Palazzo Corsini
Villa Farnesina
Carcere di Regina Coeli
Palazzo Salviati
Curiosità
A via della Lungara è legato un antico detto romano
«A via de la Lungara ce sta 'n gradino
chi nun salisce quelo nun è romano,
nun è romano e né trasteverino»
(Motto popolare romano)
Si riferisce ai tre scalini di ingresso del carcere di Regina Coeli: occorreva vivere la dura esperienza della galera e discendere, dunque, «er gradino der Coeli», per mostrarsi romano autentico e, al contempo, coraggioso
Il cantante romano Renato Zero ha dedicato una canzone alla via chiamata Lungara, contenuta nell'album Artide Antartide.
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Trionfo di Galatea
Il Trionfo di Galatea è un affresco (295 × 225 cm) di Raffaello Sanzio, databile al 1512 circa e conservato nella Villa Farnesina di Roma. È il dipinto più famoso della Villa e uno dei più importanti del pittore urbinate.
Storia
Il ricchissimo banchiere Agostino Chigi si era fatto costruire tra il 1509 e il 1512 una sontuosa villa "di delizie" da Baldassarre Peruzzi, su un terreno circondato da giardini tra via della Lungara e il Tevere, detta in seguito "della Farnesina".
La decorazione pittorica fu avviata prestissimo, via via che gli ambienti erano completati, e interessò alcuni dei migliori artisti attivi a Roma, tra cui, oltre al Peruzzi stesso, Sebastiano del Piombo, il Sodoma e Raffaello.
Al Sanzio, impegnato in quegli stessi anni a decorare la Stanza della Segnatura e la Stanza di Eliodoro in Vaticano per Giulio II, venne affidato un affresco a soggetto mitologico nella sala cosiddetta "di Galatea" al pianterreno della villa. L'opera, di forma rettangolare e dedicata appunto al trionfo della ninfa Galatea, si trova sotto una lunetta di Sebastiano del Piombo e fianco del Polifemo dello stesso artista; lo schema architettonico dipinto e il soffitto sono invece opera di Baldassarre Peruzzi e la sua scuola.
Probabilmente le pareti dovevano essere decorate, nei piani iniziali, da altre scene della storia della ninfa, mai completate: per questo i due affreschi esistenti non raffigurano gli eventi principali delle sue storie, ma solo l'apoteosi alla quale guarda, impotente, Polifemo dal riquadro attiguo.
La scena era sicuramente completata o comunque in uno stadio avanzato nel 1511, quando venne già descritta nel De viridario Augustini Chigi... libellus del Gallo, pubblicato quell'anno. Baldassarre Castiglione fu estasiato dalla perfezione della Galatea di Raffaello, chiedendogli quale fosse stata la sua modella, avendo come risposta "nessuna", cioè che la fanciulla era semplicemente frutto di una sua idea. "Della Galatea mi terrei un gran maestro se vi fossero la metà delle tante cose che Vostra Signoria mi scrive; ma nelle sue parole riconosco l'amore che mi porta, e le dico che, per dipingere una bella, mi bisogneria veder più belle, con questa condizione: che la Vostra Signoria si trovasse meco a far scelta del meglio. Ma, essendo carestia, e di buoni giudici e di belle donne, io mi servo di certa idea che mi viene nella mente. Se questa ha in sé alcuna eccellenza d'arte io non so; ben mi affatico di averla.".
L'affresco, in passato ritenuto in parti più o meno significative di mano di aiuti, in particolare Giulio Romano, dopo i restauri novecenteschi che hanno rilevato le ridipinture seicentesche, viene indicato come pienamente autografo di Raffaello
Descrizione e stile
Fonte della rappresentazione fu Teocrito (Idilli) o Ovidio (Metamorfosi), magari filtrato dal Poliziano, o Apuleio (Asino d'oro). L'affresco mostra l'apoteosi della ninfa Galatea che cavalca un cocchio a forma di capasanta trainato da due delfini e guidato dal fanciullo Palemone, circondata da un festoso corteo di divinità marine (tritoni e nereidi) e vigilata, in cielo, da tre amorini che stanno per scagliare dardi amorosi contro di lei[1]. Un quarto putto, a cui è rivolto il casto sguardo di Galatea, tiene un fascio di frecce nascosto dietro una nuvola, a simboleggiare la castità dell'amore platonico.
La posa statuaria della ninfa, in torsione verso sinistra, ricalca in un contesto laico e mitologico quella della Santa Caterina d'Alessandria, riferibile al 1508 circa.
La composizione è perfettamente misurata, con un ritmo danzante e vorticoso, dominato da Galatea avvitata su sé stessa. Riprendendo forse modelli antichi (come un bassorilievo con un Coro di Afrodite oggi nei Musei Capitolini), Raffaello ricreò una mitica classicità, utilizzando toni cristallini e preziosi, quasi irreali, che tradiscono una conoscenza già approfondita della pittura romana antica. Sul verde marmoreo della superficie del mare spicca il rosso "pompeiano" della veste di Galatea.
Il movimento del manto gonfiato dal vento, accompagnato da quello dei capelli, è ripreso dal gesto della vicina nereide, che solleva un braccio mentre è rapita da un tritone. I corpi possenti delle figure dimostrano influssi di Michelangelo, addolciti però dal senso della misura del Sanzio e dalla dolce naturalezza dei suoi personaggi, tra cui spiccano soprattutto gli amorini, ma anche la stessa Galatea, serena e aggraziata.
Il volto della Galatea
È stato dimostrato che i tratti del volto della Nereide sono quelli di Margherita Luti, l'amante e musa di Raffaello che posò anche per il famosissimo ritratto La Fornarina (1519), la Madonna Sistina (1514) e La Velata (1516). Ed il Trionfo di Galatea, essendo del 1512, è il primo dipinto dell'Urbinate in cui compare la sua amata Margherita.
Secondo alcuni Raffaello e Margherita si conobbero proprio mentre lui stava lavorando nella Villa di Agostino Chigi (proprio per questo affresco), in cui Margherita andava spesso per consegnare il pane del suo forno (situato a Trastevere).
Addirittura, dopo che Raffaello conobbe la giovane donna passava più tempo con lei che al lavoro. Agostino allora decise di chiamare Margherita nella sua Villa (anche perché Raffaello lo aveva minacciato di abbandonare l'impresa se Chigi non l'avesse ospitata) e Raffaello dipinse il volto di Galatea ispirandosi a quello della sua amante.
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Villa Farnesina
La villa Farnesina (o villa della Farnesina) è un edificio storico di Roma, oggi sede dell'Accademia Nazionale dei Lincei.
La villa vista dal fiume in una stampa di Giuseppe Vasi
Si trova su via della Lungara, nel rione Trastevere, nel Municipio I ed è uno degli edifici rappresentativi dell'architettura rinascimentale del primo Cinquecento. Progettata da Baldassarre Peruzzi fu il prototipo della villa suburbana romana e la sua realizzazione ebbe notevole risonanza, anche perché a partire dal 1511, completate le murature, la residenza fu affrescata secondo un programma iconografico di straordinaria ampiezza affidato ai più grandi artisti del periodo: lo stesso Peruzzi, Sebastiano del Piombo, Raffaello Sanzio e la sua scuola (compreso Giulio Romano) e Il Sodoma.
Storia
Fu costruita dal 1506 al 1512 dal giovane Peruzzi per il ricchissimo banchiere senese Agostino Chigi, grande mecenate e personaggio di spicco nella Roma di inizio Cinquecento, che aveva accumulato una grande fortuna dai proventi della vendita dell‘allume della Tolfa e che godeva della protezione di papa Giulio II prima, e Leone X poi. La Farnesina, che all'epoca era detta semplicemente villa Chigi, fu la prima villa nobiliare suburbana di Roma ed ebbe fin dall'inizio un grande risalto, venendo presto citata e imitata. Gli interventi architettonici, sebbene potessero dirsi conclusi nel 1512, si protrassero per altri lavori fino al 1520.
Con la morte del Chigi, nel 1520, la villa decadde e venne depauperata degli arredi e delle opere d'arte. Nel 1580 fu acquistata dal cardinale Alessandro Farnese ed ebbe così il nome attuale. A tale periodo risale un progetto, non realizzato, per collegare, con un passaggio coperto, Palazzo Farnese con la Farnesina. Nel 1714 divenne di proprietà dei Borbone di Napoli e nel 1864 vi si insediò l'ambasciatore Bermudez de Castro, che, due anni dopo, promosse una serie di pesanti restauri. Nel 1884 l'apertura del Lungotevere comportò la distruzione di una parte dei giardini e della loggia sul fiume, che forse era stata disegnata da Raffaello.
Dal 1927 appartiene allo Stato italiano, che l'ha fatta restaurare nel 1929-1942 per destinarla all'Accademia d'Italia ed a più riprese nel 1969-1983. Oggi è utilizzata dall'Accademia dei Lincei come sede di rappresentanza e ospita, al primo piano, il Gabinetto nazionale delle stampe.
Architettura
Pianta del piano terra
L'edificio, su due piani, ha una innovativa pianta a ferro di cavallo, che si apre verso il giardino con due ali tra cui è posta una loggia situata nel piano terreno e composta da cinque archi che sono attualmente chiusi da vetrate protettive; soluzione questa necessaria per la salvaguardia degli affreschi, che tuttavia ha alterato la percezione di vuoti e pieni. Tale schema che consente uno stretto legame tra il giardino e la villa, richiama modelli vitruviani e schemi architettonici presenti nell'opera di Francesco di Giorgio Martini e anticipati nella Villa Volte Alte nei pressi di Siena.
La loggia serviva da palcoscenico per le feste e le rappresentazioni teatrali organizzate dal proprietario. Il giardino all'italiana che completava la villa è stato molto alterato nel tempo.
L'edificio si distingue dai modelli bramanteschi correnti nella Roma di inizio secolo anche nella definizione delle facciate: non sono presenti, ad esempio, né il bugnato né i relativi archi alle finestre al piano terra, né colonne o elementi di rivestimento in marmo. Manca un forte rilievo plastico delle membrature architettoniche dei prospetti, ridotte a due ordini di lesene tuscaniche, che si profilano con leggerezza sul paramento murario. In alto i prospetti sono conclusi da un piano ribassato, un attico di servizio, con all'esterno un fregio a rilievo di putti e ghirlande, dove si aprono finestrelle, al di sotto del cornicione.
L'aspetto originario dell'edificio presentava anche all'esterno ampie superfici affrescate, anche se rimangono oggi solo piccole tracce non leggibili.
La villa era completata con un padiglione separato ad uso forse di scuderie ed il cui progetto è attribuito a Raffaello. Attualmente, all'esterno del muro di cinta della villa, rimane il basamento
dell'edificio caratterizzato dall'impianto con ali sporgenti, come l'edificio principale, e da paraste binate.
Interno
Per la decorazione interna Agostino Chigi chiamò i migliori artisti del tempo per eseguire negli spazi interni cicli di affreschi con caratteri innovativi e secondo un programma iconografico interamente improntato alla classicità.
Accedendo si incontra per primo un atrio, creato nel XIX secolo, che porta alla Loggia di Psiche.
La Loggia
Nella loggia è dipinto il ciclo con le Storie di Amore e Psiche, tratte da Apuleio[5], opera di Raffaello e dei suoi allievi (Raffaellino del Colle, Giovan Francesco Penni, Giulio Romano), in cui le scene sono inserite in un intreccio di festoni vegetali, opera dell'altro allievo Giovanni da Udine (1517, ripassate da Carlo Maratta nel 1693-1694). Gli affreschi vennero sicuramente disegnati da Raffaello, ma la stesura spetta soprattutto alla sua scuola. La presenza degli intrecci vegetali accresce il senso di continuum della loggia con il giardino; vi sono riconoscibili la bellezza di circa duecento specie botaniche, soprattutto domestiche, tra cui anche numerose piante importate dalle Americhe, scoperte solo pochi anni prima.
Al centro del complesso sistema figurativo spiccano le grandi rappresentazioni del Concilio degli dei e del Convito nuziale, tra finti arazzi tesi tra festoni. Nei peducci si trovano i vari episodi delle Storie di Amore e Psiche. Nelle vele sopra le lunette putti con gli attributi delle varie divinità.
Le peripezie di Psiche ripercorrono la medesima travagliata salita sociale di Francesca Ordeaschi, amante di Agostino Chigi, che da cortigiana si elevò al rango di moglie legittima del banchiere.
Un sistema digitale per l'esplorazione virtuale del soffitto affrescato è stato realizzato in occasione delle mostra " La Loggia di Amore e Psiche - Raffaello e Giovanni da Udine - I Colori della Prosperità: Frutti dal Vecchio e Nuovo Mondo" (20 aprile - 20 luglio 2017) ed è attualmente consultabile online.
Sala del Fregio
Segue a sinistra la sala del Fregio, forse uno studiolo del committente. Le pareti, alle quali erano forse appesi arazzi, vennero affrescate nella fascia superiore da Baldassarre Peruzzi (1511 circa) con piccole scene mitologiche monocrome poste in sequenza, raffiguranti le Imprese di Ercole sul lato nord e in parte sul lato est, e altri episodi mitici, tratti dalle Metamorfosi di Ovidio, nel resto del fregio. L'interpretazione complessiva è generalmente riferita al contrasto tra ragione e passione, tra sfera apollinea e sfera dionisiaca. Si tratta di una delle prime opere pittoriche di Peruzzi a Roma e lo stile risente ancora delle esperienze senesi.
Sala di Galatea
Una delle sale contigue alla loggia è la Sala di Galatea, un tempo con archi aperti sul giardino, che vennero chiusi nel 1650. La sala deve il nome all'affresco di Raffaello con il Trionfo di Galatea, che rappresenta la ninfa su un cocchio tirato da delfini, tra un festoso seguito di creature marine. Accanto all'affresco di Raffaello si trova il monumentale Polifemo di Sebastiano del Piombo (1512-1513), prima opera dell'artista veneziano a Roma, arrivato proprio al seguito del Chigi.
Allo stesso artista si devono anche otto delle dieci lunette con immagini mitologiche, dipinte con i toni particolarmente ariosi, tipici del colorismo veneto. Raffigurano:
Tereo insegue Filomela e Progne
Aglauro ed Erse
Dedalo e Icaro
Giunone
Scilla taglia i capelli a Niso
Caduta di Perdix
Borea rapisce Orizia
Zefiro e Flora
Un'altra lunetta mostra una testa a monocromo che la tradizione popolare vuole dipinta da Michelangelo, venuto in visita all'amico Sebastiano del Piombo, e desideroso di dare un bell'esempio di studio anatomico al rivale Raffaello.
Baldassarre Peruzzi affrescò anche la volta, con vari temi mitologici entro riquadri geometrici, determinati dall'architettura dipinta che si raccorda a quella della parete. Al centro, in un ottagono regolare, si trova lo stemma del committente, affiancato da due scene più lunghe, pure di forma ottagono allungato: a sinistra la Fama annuncia la gloria terrena del banchiere, vicino a Perseo che uccide la Medusa, secondo un'iconografia derivata dall'Urania di Giovanni Pontano e dalle Mitologie di Fulgenzio; a destra Elice, la ninfa del polo celeste, ricorda come gli onori terreni dipendono dal favore degli astri. Seguono dieci pennacchi (doppi agli angoli, per un totale quindi di 14) con varie figure mitologiche/simboliche e dieci esagoni con varie divinità, intervallate negli spazi triangolari residui da putti a cavalli di animali fantastici a monocromo. Negli esagoni si vedono il Ratto di Ganimede, Venere in Capricorno, Apollo/Sole in Sagittario, che ricorda il segno del Chigi (nato il 29 novembre 1466 alle 21.30), Mercurio in Scorpione e Marte in Bilancia, Diana/Luna in Vergine (l'ascendente del Chigi al momento del concepimento), e ancora Ercole e il leone nemeo, Ercole e l'idra di Lerna, Leda e il cigno (indicatore per determinati movimenti astrologici), Giove in Toro (influenza benigna che determina il carattere generoso e magnanimo di Agostino), Saturno nei Pesci. In definitiva si tratta quindi della raffigurazione dell'oroscopo personale di Agostino Chigi.
I dipinti della sala vennero ritoccati nel 1863 e restaurati nel 1969-1973.
Sala delle prospettive
Al piano superiore si trova la sala delle prospettive, dipinta illusionisticamente nel 1518-1519, da Baldassarre Peruzzi e aiuti, come se fosse una loggia. Gli affreschi vennero completamente ridipinti nel 1863, ma recuperati dai restauri del 1976-1983. Qui Agostino Chigi tenne il suo banchetto nuziale nel 1519[.
Ai lati del Salone Peruzzi dipinse due finte logge con colonne e archi, affacciate su vedute di Roma, tra cui una vista di Trastevere e una agreste. Sopra il camino si trova la Fucina di Vulcano. Il lungo fregio che cinge l'ambiente nella parte superiore delle pareti raffigura scene mitologiche eseguite dal Peruzzi e dalla sua bottega, intervallate da finti bassorilievi con erme femminili.
Nella sala delle prospettive è facile individuare sulle pareti incisioni e graffiti vandalici risalenti al sacco di Roma del 1527 compiuti da lanzichenecchi che bivaccarono nella villa.
Sala delle Nozze di Alessandro e Rossane
L'attigua camera da letto era usata dal Chigi e dalla sua consorte[10]. Venne decorata da affreschi del Sodoma (1517), con scene della vita di Alessandro Magno, soggetto destinato a glorificare il committente, identificato con il personaggio della classicità.
Particolarmente conosciuta la scena delle Nozze di Alessandro e Rossane, affrescata sull'intero lato nord, basata su fonti letterarie classiche, nel tentativo archeologizzante di ricostruire, attraverso la descrizione fatta da Luciano di Samosata, un dipinto del pittore greco Aezione. Nell'affresco sono frequenti i richiami all'imminente matrimonio di Alessandro e Rossane, dai puttini alati alla fiaccola accesa sostenuta dal dio Imeneo, emblema delle nozze, ritratto alle spalle del seminudo Efestione, compagno del condottiero. Gli altri episodi legati al ciclo del condottiero sono la Famiglia di Dario davanti ad Alessandro, sulla parete est, Alessandro Magno doma Bucefalo, nel quale è riconoscibile, specialmente nella parte destra, la mano di un collaboratore, e Alessandro in battaglia nella parete sud. Del Sodoma anche Vulcano alla forgia con alcuni amorini che gli porgono dei dardi.
Esiste anche una lettura ermetica di questi affreschi del Sodoma, con analogie tra un significato manifesto della narrazione e uno latente, di ermeneutica alchemica, con le quattro fasi della Grande Opera (nigredo, rubedo, citrinitas, albedo) descritte con simboli crittografici.
Questi affreschi, ritoccati da Carlo Maratta, vennero restaurati nel 1974-1976.
L'elaborato soffitto a cassettoni, disegnato da Peruzzi, mostra dodici piccoli riquadri con scene dalle Metamorfosi di Ovidio, eseguiti poi dal Maturino aiutato probabilmente da un giovane Polidoro da Caravaggio.
Archeologia
La villa Farnesina è interessata anche da ritrovamenti archeologici localizzati sotto una parte del giardino, dove è stata ritrovata, nel XIX secolo, una lussuosa casa, risalente all'epoca augustea, che si ritiene possa essere stata la residenza di Marco Vipsanio Agrippa e Giulia maggiore. Tale residenza è stata denominata Casa della Farnesina ed è particolarmente ricca di affreschi, molti dei quali sono oggi a Palazzo Massimo alle Terme.
Le pitture murali - come anche quelle della Casa di Livia - mostrano una combinazione tra il secondo e il terzo stile della pittura muraria romana. Mostrano immagini mitologiche centrali su uno sfondo bianco, che sono circondate da fasce rosse. Nello sfondo sono rappresentati colonne ed altri elementi architettonici. L'abitazione fu scoperta nei pressi della sede dei Lincei durante i lavori per la costruzione del muraglione lungo il Tevere, verso il 1880.
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